
Il 25 dicembre scorso ci ha lasciati Elena Gianini Belotti, illuminata pedagogista, scrittrice, saggista, madre nobile del femminismo italiano. Con il suo libro, “Dalla parte delle bambine”, tutt’ora ci aiuta a comprendere, attraverso una riflessione inedita che negli anni ’70 avviò il dibattito sulla parità di genere, che gli esseri umani, a prescindere se maschi o femmine, nei primi due anni di vita, nelle pulsioni legate a sentimenti, emozioni, come paura, aggressività, dolore, gioia, gentilezza, in tutti gli aspetti relazionali, manifesterebbero comportamenti simili. Solo dal terzo anno in poi si costituirebbero differenze di ruolo, atteggiamenti legati più che altro al condizionamento socioculturale, dove il maschietto a un certo punto inizierebbe a tirare fuori aggressività verso l’altro, verso un potenziale nemico, non appartenente al suo gruppo identitario, in questo caso nei confronti delle bambine, che accetterebbero in un silenzio remissivo, passivo, questo comportamento prepotente.
Bisogna però andare oltre a questa ipotesi, senza perdere di vista un fattore importante, che gli esseri umani non nascono tutti come delle tabule rase, usciti da una catena di montaggio, ognuno porta con sé un patrimonio genetico specifico, che determina una personalità differente, e questo non è da sottovalutare, generalizzando gli atteggiamenti negativi maschili in un insieme di genere. Certamente il condizionamento socioculturale esterno ha un’importanza fondamentale nella crescita dell’individuo, interagisce con la formazione dell’identità, senza la quale non si arriva ad una maturità lontana dalle esigenze narcisiste del bambino. Però, identificare il male in un genere distorce, rasentando un giudizio patologico che allontana, grazie allo stereotipo, dai termini obbiettivi di valutazione.
La questione della parità dei generi non può e non deve diventare, nel senso comune, una sorta di contrappasso della vendetta da parte delle donne nei confronti degli uomini, per far scontare loro le violenze e il maschilismo storico subito nei millenni, incolpando di questo, a livello simbolico, qualsiasi uomo. In quest’epoca di precarietà sociale, umana, di nebulosità dei punti di riferimento, possiamo permetterci di continuare a coltivare divisioni, invece di comprendere quanto sia evolutivo il principio di complementarità andando oltre ai generi?
Sicuramente a livello culturale va affrontata la questione del condizionamento maschilista, che però nella sua genesi non è patrimonio solo del genere maschile, che spesso, trasversalmente, viene trasmetto ai figli da padri e madri, dalla società, da una scuola poco attenta che affronta il tema senza supporti competenti.
Se si deve estirpare il maschilismo come una malattia, non lo si deve trasferire alle figlie in crescita, in una sorta di femminismo vendicativo, che tende a ristabilire un equilibrio nell’aggressività, nell’incomunicabilità, senza curarsi degli effetti collaterali che questo atteggiamento produce. Sì, perché, a livello intellettuale, è facile schierarsi dalla parte delle donne, ostentare di risolvere la questione in termini dialettici attraverso la comunicazione, diventando paladini/paladine di una giusta causa, che si comunica a livello mediatico. Questo modo di affrontare il problema in realtà non si preoccupa minimamente degli effetti collaterali prodotti da una comunicazione sociale non consapevole, fatta da dinamiche fondate solo sulla pancia, in una provocazione teatrale che mette a rischio le donne, abbandonandole nelle loro solitudini domestiche, fra le mani dei loro carnefici, che, a telecamere spente, potrebbero sentirsi legittimati a produrre violenza in una guerra di posizione di genere, fomentata da messaggi esterni che in realtà invece di combatterla l’alimentano.
Continuare in questo modo non risolve il problema, ma crea solo visibilità ad un conflitto dove inevitabilmente continueranno a esserci delle vittime, creando uomini e donne sempre più distanti. La funzione intellettuale deve essere, per sua natura, di vera utilità sociale, il problema è quando resta solo speculativa a girare su se stessa come una bella trottola che gira statica, senza produrre un moto differente, utile. La questione va affrontata da un punto di vista di evoluzione umana, il femminismo è servito ad aprire una strada, contestualizzata negli anni ’70, un risveglio e un’attenzione dovuta nei confronti della discriminazione delle donne, ma procedere in modo fondamentalista su quel tipo di percorso, senza curarsi dei cambiamenti sociali, significa creare uno stallo che non può portare ad altro che a periodi storici di maggiore o minore potere di genere, lontano da un percorso di consapevolezza, di reale crescita, che vedrà gli esseri umani sempre più incapaci di elaborare nuovi valori di complementarità fra persone.